Reati societari

In tema di pene accessorie fallimentari, in conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata dalla Corte Cost. n. 222/2018, la durata deve essere determinata sulla scorta del criterio finalistico della specialprevenzione negativa, valorizzando i criteri fattuali sanciti dall’art. 133 c.p. che si rivelino, nella fattispecie concreta, maggiormente pertinenti all’esercizio della discrezionalità riconosciuta dall’art. 132 c.p., con una valutazione calibrata sulla specificità delle pene accessorie fallimentari, avendo riguardo, sotto il profilo della gravità del reato, a: 1) le modalità dei fatti (ad es., commissione di fatti di bancarotta patrimoniale, mediante complesse operazioni infragruppo, o fittizi svuotamenti societari, o articolate operazioni di frodi fiscali); 2) la gravità del danno o del pericolo cagionato (entità del depauperamento, numero dei creditori coinvolti, ecc.); 3) intensità del dolo, anch’essa desumibile dalle modalità dei fatti, e dalla insidiosità delle condotte; e, sotto il profilo della capacità a delinquere del colpevole, soprattutto con riferimento alla funzione di estromissione dalle attività economiche che hanno consentito la commissione di reati di bancarotta, al criterio dei precedenti penali e giudiziari, che, nell’ottica di una individualizzazione del trattamento sanzionatorio accessorio, diretto ad interdire comportamenti economici pericolosi, deve essere valutato in quanto espressivo di una capacità a delinquere ‘specifica’, attinente allo svolgimento di attività economiche ed imprenditoriali, e, dunque, alla funzione interdittiva coessenziale alle pene accessorie fallimentari.

Cassazione penale sez. V, 30/4/2021, n.24587.

NORME DI LEGGE

Regio decreto del 16/03/1942 – N. 267 Art. 216 – Bancarotta fraudolenta.

È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che:

1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;

2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.

È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.

Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

GIURISPRUDENZA

Cassazione penale sez. V, 30/4/2021 n.24587.

RITENUTO IN FATTO

1.Con sentenza emessa il 28/6/2019 la Corte di Appello di Milano ha confermato l’affermazione di responsabilità pronunciata dal Tribunale di Milano il 08/3/2018 nei confronti di C.C. per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, per avere, in qualità di amministratore di diritto della (OMISSIS), fallita il 15/5/2014: – dissipato il patrimonio aziendale, cedendolo senza alcun corrispettivo a C.V. e C.M. che, con la (OMISSIS) s.r.l., hanno proseguito l’attività; – distratto i veicoli ed un immobile, oggetto di una cessione simulata in favore di C.O.S., M.A. e C.A.J.; – distratto crediti per oltre 1,2 milioni di Euro; – sottratto o occultato i libri e le scritture contabili.

2.Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di C.C., Avv. Antonio Rodontini, che ha dedotto i seguenti motivi, qui enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.

2.1. Con il primo motivo deduce il vizio di motivazione, lamentando che la Corte territoriale abbia attribuito a C.C. il ruolo non solo di amministratore di diritto, ma anche di amministratore di fatto, senza confrontarsi con le censure proposte con l’atto di appello, con cui si sosteneva il ruolo di mera testa di legno di C.C.; al riguardo, richiama le dichiarazioni dell’imputato rilasciate al curatore e confermate dalle nipoti anche nel corso del dibattimento: le coimputate, C.A.J. e C.O.S. dichiaravano infatti che l’attività gestoria era diretta dal loro padre, C.D., e da C.V., che gli automezzi erano stati riversati da costoro in una nuova società e che la contabilità, fino al 2013 conservata presso l’immobile di (OMISSIS), era stata prelevata dal C.V.; da tali dichiarazioni non risulta alcun ruolo attivo di C.C..

Deduce inoltre il travisamento delle prove nella parte in cui la Corte territoriale ha sostenuto che l’assunto della difesa circa il ruolo di prestanome di C.C. fosse sconfessato dalle dichiarazioni delle nipoti e coimputate, atteso che da tali dichiarazioni si evince univocamente che il ruolo gestorio nella società era in capo a C.D. ed a C.V..

Del resto la tesi contraria è contraddetta dalla stessa Corte territoriale laddove, nell’ipotizzare un accordo illecito tra il ricorrente e C.V., qualifica C.C. quale amministratore di diritto che avrebbe fornito un contributo a C.V., quale effettivo gestore della società: dunque, la motivazione è contraddittoria, in quanto in un primo momento individua in C.C. il vero dominus della società, ma successivamente, riconoscendogli la veste di amministratore di diritto, gli contesta di aver contribuito all’attività illecita posta in essere dall’effettivo gestore della società.

2.2. Con un secondo motivo deduce il vizio di motivazione in relazione alla durata delle pene accessorie fallimentari, che nonostante la sentenza n. 222 del 2018 della Corte Cost., sono state confermate nella durata massima di 10 anni nonostante il trattamento sanzionatorio fosse stato contenuto nei minimi edittali con riconoscimento altresì delle attenuanti generiche, e senza una considerazione concreta della condotta e dell’intensità del dolo.

Diritto

1.Il ricorso è fondato limitatamente al secondo motivo.

2.Il primo motivo è inammissibile, perché propone doglianze eminentemente di fatto, che sollecitano, in realtà, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità, sulla base di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è , in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944); infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie del vizio di motivazione e della violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., sono in realtà dirette a richiedere a questa Corte un inammissibile sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte territoriale (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).

In particolare, con le censure proposte il ricorrente non lamenta una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica – unici vizi della motivazione proponibili ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), -, ma una decisione erronea, in quanto fondata su una valutazione asseritamente sbagliata in merito alla natura solo formale del ruolo di amministratore di diritto assunto ed alla mancanza di un ruolo attivo nelle condotte distrattive.

Il controllo di legittimità, tuttavia, concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicché il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.

Pertanto, nel rammentare che la Corte di Cassazione è giudice della motivazione, non già della decisione, ed esclusa l’ammissibilità di una rivalutazione del compendio probatorio, va al contrario evidenziato che la sentenza impugnata ha fornito logica e coerente motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, con argomentazioni prive di illogicità (tantomeno manifeste) e di contraddittorietà.

Premesso che si versa in un caso di c.d. doppia conforme, in cui, pertanto, la struttura della motivazione della sentenza di appello si salda con quella di primo grado per formare un unico complessivo corpo argomentativo (ex multis, Sez. 2, n. 37295 del 12/6/2019, E., Rv. 277218), con i conseguenti limiti di deducibilità del c.d. travisamento della prova (da ultimo, Sez. 4, n. 35963 del 3/12/2020, Tassoni, Rv. 280155: “Il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, sia nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti”), va rilevato che entrambi i giudici del merito hanno condiviso le valutazioni di fatto ed evidenziato, in conformità degli orientamenti giurisprudenziali in materia di amministratore di diritto, le ragioni che hanno consentito di ricondurre gli elementi acquisiti, sia sul piano fattuale che su quello logico, alla fattispecie astratta, senza che le doglianze del ricorrente siano idonee a scalfire la tenuta logica della motivazione.

La sentenza di primo grado, richiamata dal giudice di seconde cure, è chiara e puntuale in merito al ruolo gestorio effettivamente svolto dall’imputato: amministratore unico sin dal 2009, e fino al 2014, data del fallimento, il suo coinvolgimento nell’attività gestoria è stata desunta non soltanto dal ruolo di amministratore di diritto per quasi cinque anni, ma altresì dalle dichiarazioni rese in dibattimento dalla teste assistita C.J., secondo la quale l’imputato aveva sempre affiancato il padre anche prima dell’assunzione di tale carica formale, essendone il “braccio destro”, e succedendogli, dopo la morte, anche nella carica formale.

A fronte di tali elementi, i giudici di merito hanno evidenziato l’assenza di una diversa prospettazione, seriamente supportata sotto il profilo fattuale, essendo stata la tesi della mera testa di legno inconsapevole sconfessata dalle tre socie dinanzi al curatore, e da C.J. ribadito in dibattimento.

Ciò posto, va sottolineato che tali considerazioni valgono essenzialmente per la bancarotta fraudolenta patrimoniale, essendo indiscusso che, in tema di reati fallimentari, l’amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o per omessa tenuta, in frode ai creditori, delle scritture contabili anche se sia investito solo formalmente dell’amministrazione della società fallita (cosiddetta testa di legno), in quanto sussiste il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le predette scritture, purché sia fornita la dimostrazione della effettiva e concreta consapevolezza del loro stato, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari (Sez. 5, n. 43977 del 14/7/2017, Pastechi, Rv. 271754).

3.E’, invece, fondato il secondo motivo di ricorso, concernente la durata delle pene accessorie, determinata, in assenza di adeguata motivazione, nella massima estensione di dieci anni.

3.1. Al riguardo, va innanzitutto rammentato che le Sezioni Unite di questa Corte, nell’affermare la necessità di una dosimetria sanzionatoria quanto più personalizzata alla luce degli indici fattuali di cui all’art. 133 c.p., hanno altresì ribadito la peculiare funzione delle pene accessorie, che sono, “specie quelle interdittive e inabilitative, collegate al compimento di condotte postulanti lo svolgimento di determinati incarichi o attività, più marcatamente orientate a fini di prevenzione speciale, oltre che di rieducazione personale, che realizzano mediante il forzato allontanamento del reo dal medesimo contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale sono maturati i fatti criminosi e dallo stimolo alla violazione dei precetti penali per impedirgli di reiterare reati in futuro e per sortirne l’emenda”; invero, “la piena realizzazione soprattutto dello specifico finalismo preventivo, cui sono preordinate le pene complementari, richiede una loro modulazione personalizzata in correlazione con il disvalore del fatto di reato e con la personalità del responsabile, che non necessariamente deve riprodurre la durata della pena principale. Risultato questo conseguibile soltanto ammettendone la determinazione caso per caso ad opera del giudice nell’ambito della cornice edittale disegnata dalla singola disposizione di legge sulla scorta di una valutazione discrezionale, che si avvalga della ricostruzione probatoria dell’episodio criminoso e dei parametri dell’art. 133 c.p. e di cui è obbligo dare conto con congrua motivazione” (Sez. U, n. 28910 del 28/2/2019, Suraci, Rv. 276286, non mass. sul punto).

Ebbene, la necessità dell’obbligo di “congrua motivazione” “non può che interpretarsi come l’ostensione di un apparato argomentativo effettivamente calibrato sulla funzione preventiva rispetto ai diritti fondamentali della persona (libertà di iniziativa economica) ed alla finalità (non (solo) rieducativa) delle pene accessorie” (Sez. 5, n. 36256 del 22/10/2020, Bertoli, Rv. 280488, che, in tema di reati fallimentari, ha affermato che la durata delle pene accessorie deve essere determinata in concreto dal giudice sulla base dei criteri di cui agli artt. 132 e 133 c.p., da parametrarsi, con specifica ed adeguata motivazione, alla funzione preventiva ed interdittiva delle stesse).

Nel medesimo solco interpretativo, è stato ribadito, in tema di pene accessorie previste per i reati fallimentari, che, ove la durata sia determinata in misura superiore alla media edittale, è necessaria una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi e oggettivi di cui all’art. 133 c.p., tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena, ancor più ove sussista divaricazione nel trattamento sanzionatorio complessivo tra pena principale, irrogata nel minimo, e pene accessorie fissate nel massimo (Sez. 5, n. 1947 del 03/11/2020, dep. 2021, Maddem, Rv. 280668), e che, ai fini della determinazione della durata delle pene accessorie fallimentari, per la spiccata finalità specialpreventiva delle stesse, assumono significativo rilievo, oltre alla gravità della condotta, anche tutti gli elementi fattuali indicativi della capacità a delinquere dell’agente (Sez. 5, n. 12052 del 19/1/2021, Amorello, Rv. 28089802).

3.2. I principi già affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale della durata fissa delle pene accessorie fallimentari pronunciata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 222 del 2018, meritano una precisazione, anche in considerazione della tendenziale refrattarietà – emblematicamente emersa nella sentenza impugnata – dei giudici di merito alla determinazione di un trattamento realmente individualizzato, proporzionato alla concreta gravità dei fatti ed alla concreta personalità del reo, ed all’assolvimento dei correlativi oneri motivazionali.

Giova, al riguardo, premettere che le pene accessorie sono, in generale, misure afflittive, che, di regola, comportano una limitazione di capacità, attività o funzioni, accrescendo altresì l’afflittività della pena principale; oltre ad una funzione generai-preventiva, le pene accessorie hanno una funzione special-preventiva, orientata non tanto alla rieducazione, quanto alla obiettiva eliminazione di quelle condizioni che potrebbero consentire la ricaduta nel reato.

In tal senso, la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 222/2018, ha evidenziato come l’originaria previsione delle pene accessorie fallimentari fosse diretta ad allontanare l’imprenditore condannato a titolo di bancarotta fraudolenta “dall’ambito imprenditoriale per un lungo periodo successivo all’esecuzione della pena detentiva (…) allo scopo di estendere nel tempo l’effetto di prevenzione speciale negativa già esplicato dall’esecuzione della pena detentiva, oltre che di conferire maggior capacità deterrente all’incriminazione” (p. 8.3); la Corte Costituzionale ha, dunque, sottolineato la “funzione almeno in parte distinta” attribuita alle pene accessorie fallimentari rispetto alle pene detentive principali, in quanto “marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa – imperniata sull’interdizione del condannato da quelle attività che gli hanno fornito l’occasione per commettere gravi reati”.

Ma la stessa Consulta, nel rilevare l’illegittimità della durata fissa delle pene accessorie fallimentari, ha posto l’accento sulla disomogeneità, in termini di gravità, delle diverse fattispecie riconducibili ai reati di bancarotta fraudolenta previsti dagli artt. 216 e 223 L. Fall., sia a livello astratto, come dimostrato dai diversi limiti edittali previsti per la bancarotta preferenziale, sia a livello di gravità dei fatti concreti, “in relazione se non altro alla gravità del pericolo di frustrazione delle ragioni creditorie (in termini sia di probabilità di verificazione del danno, sia di entità del danno medesimo, anche in termini di numero delle persone offese)” (p. 7.2).

Ciò posto, va dunque affermato che la determinazione di un trattamento sanzionatorio accessorio realmente individualizzato, proporzionato alla concreta gravità dei fatti ed alla concreta personalità del reo, deve essere orientata dalla precipua funzione special-preventiva negativa che caratterizza le pene accessorie fallimentari, rivolta alla estromissione del condannato per reati di bancarotta fraudolenta dalle attività economiche che hanno fornito l’occasione per commettere i gravi reati posti a fondamento dell’affermazione di responsabilità.

Ebbene, nella concreta commisurazione della durata delle pene accessorie, il giudice deve, sulla scorta del criterio finalistico della special-prevenzione negativa, valorizzare – con il conseguente assolvimento dei correlativi oneri motivazionali -, i criteri fattuali sanciti dall’art. 133 c.p. che si rivelino, nella fattispecie concreta, maggiormente pertinenti all’esercizio della discrezionalità riconosciuta dall’art. 132 c.p., e con una valutazione calibrata sulla specificità delle pene accessorie fallimentari.

In tal senso, la gravità del reato assume un rilievo certamente significativo, potendo essere valutate, e valorizzate: a) le modalità dei fatti (ad es., commissione di fatti di bancarotta patrimoniale, mediante complesse operazioni infragruppo, o fittizi svuotamenti societari, o articolate operazioni di frodi fiscali); b) la gravità del danno o del pericolo cagionato, “in relazione se non altro alla gravità del pericolo di frustrazione delle ragioni creditorie (in termini sia di probabilità di verificazione del danno, sia di entità del danno medesimo, anche in termini di numero delle persone offese)” (Corte Cost., sent. 222/2018, p. 7.2), venendo in rilievo, esemplificativamente, l’entità del depauperamento, il numero dei creditori coinvolti, ecc.; c) l’intensità del dolo, anch’essa desumibile dalle modalità dei fatti, e dalla insidiosità delle condotte.

Tuttavia, i criteri fattuali della gravità del reato non possono assumere un rilievo assorbente, essendo indispensabile altresì una valutazione dei criteri fattuali della capacità a delinquere del colpevole, soprattutto con riferimento alla determinazione della durata delle pene accessorie, ed alla funzione dalle stesse svolte di estromissione dalle attività economiche che hanno consentito la commissione di reati di bancarotta.

In tal senso, il criterio dei precedenti penali e giudiziari, che già di solito assume, nella valutazione della capacità a delinquere, un rilievo preminente, anche per la maggiore verificabilità processuale – in assenza, almeno di regola, di strumenti idonei, nell’attuale sistema processuale, a fornire il sapere criminologico in grado di riempire di contenuto gli altri criteri fattuali previsti dall’art. 133, comma 2, nn. 1), 3) e 4) -, merita un particolare approfondimento, proprio nell’ottica di una individualizzazione del trattamento sanzionatorio accessorio, diretto ad interdire comportamenti economici pericolosi.

Invero, ai fini della determinazione della durata delle pene accessorie fallimentari, oltre ad una capacità a delinquere generica, desumibile da precedenti (penali o giudiziari) anche non specifici (di carattere patrimoniale o non), rileva una capacità a delinquere specifica, attinente allo svolgimento di attività economiche ed imprenditoriali, e, dunque, alla funzione interdittiva coessenziale alle pene accessorie fallimentari.

Ciò posto, i diversi criteri finalistici e fattuali devono essere oggetto di una concreta valutazione giurisdizionale – sia pur sinteticamente motivata, mediante una argomentazione che dia effettivamente conto della ratio decidendi – che combini, in un giudizio complessivo orientato alla funzione special-preventiva negativa, i diversi indici di commisurazione che vengono in rilievo nel caso concreto, ai fini della determinazione di un trattamento sanzionatorio accessorio realmente individualizzato: invero, per quanto la gravità oggettiva della bancarotta accertata (per la pluralità delle condotte, per l’insidiosità delle stesse, per il danno o per il pericolo cagionati, per il numero di persone offese coinvolte) possa assumere un rilievo eminente, la durata delle pene accessorie fallimentari non può essere automaticamente correlata alla gravità oggettiva del reato, ma deve essere connessa alla concreta esigenza di estromettere il condannato dalle attività economiche ed imprenditoriali che hanno consentito la commissione dei reati.

In tal senso, esemplificando, anche con riferimento ad una bancarotta di modeste dimensioni, può assumere un rilievo essenziale l’accertata capacità a delinquere specifica dell’autore: si pensi al caso della mera testa di legno che abbia ripetutamente assunto la medesima veste imprenditoriale anche in altre vicende di bancarotta, per consentire una diversa allocazione delle responsabilità penali, ovvero dell’autore che abbia posto in essere complesse operazioni o artifici, dimostrando una spiccata dimestichezza con i meccanismi spoliativi (in tal senso, ad esempio, Sez. 5, n. 12052 del 19/01/2021, Amorello, Rv. 280898-02, con riferimento ad una fattispecie relativa al reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva valorizzato sia l’entità delle spoliazioni accertate, sia la non occasionalità del coinvolgimento dell’imputato – già condannato per fatti di bancarotta fraudolenta – quale concorrente, in un meccanismo collaudato di distrazione di denaro dalla fallita, mediante un sistema di false fatturazioni e di riscossione di assegni in assenza di prestazione; Sez. 5, n. 7034 del 24/01/2020, Murru, Rv. 278856, con riferimento ad una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto adeguatamente motivata la decisione del giudice fondata sulla reiterazione delle condotte di frode in danno dei creditori, sul pregiudizio per la massa dei creditori e sui precedenti penali dell’imputato).

Al contrario, anche nel caso di una bancarotta di entità non insignificante, la gravità del reato non può prescindere dal rilievo di un eventuale comportamento del reo, susseguente al reato, che abbia assicurato seri risarcimenti alle ragioni creditorie, o che abbia volontariamente e stabilmente abbandonato le attività economiche ed imprenditoriali che hanno consentito la commissione dei reati.

3.3. Tanto premesso sotto il profilo della determinazione della durata delle pene accessorie fallimentari, va altresì evidenziato, sotto il connesso profilo degli oneri motivazionali, che, anche in tema di pene accessorie previste per i reati fallimentari, ove la durata sia determinata in misura superiore alla media edittale, è necessaria una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi e oggettivi di cui all’art. 133 c.p., tenendo conto della funzione special-preventiva della pena, ancor più ove sussista divaricazione nel trattamento sanzionatorio complessivo tra pena principale, irrogata nel minimo, e pene accessorie fissate nel massimo (in senso analogo, Sez. 5, n. 1947 del 03/11/2020, dep. 2021, Maddem, Rv. 280668).

Invero, pur essendo le funzioni della pena detentiva e delle pene accessorie fallimentari parzialmente diverse, come già in precedenza evidenziato, nondimeno va rilevato che la determinazione di pene accessorie nel massimo edittale di dieci anni (o comunque in misura prossima al massimo), pur in presenza di una pena detentiva magari determinata nel minimo edittale (di tre anni di reclusione, magari ulteriormente ridotta in considerazione del riconoscimento di circostanze attenuanti), può assumere connotazioni di irragionevolezza, in assenza di una motivazione specifica, concreta e logicamente salda sulle ragioni di una divaricazione così significativa delle rispettive durate.

3.4. Alla stregua delle considerazioni che precedono, vanno dunque affermati i seguenti principi di diritto:

– in tema di pene accessorie fallimentari, in conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata dalla Corte Cost. n. 222/2018, la durata deve essere determinata sulla scorta del criterio finalistico della special-prevenzione negativa, valorizzando i criteri fattuali sanciti dall’art. 133 c.p. che si rivelino, nella fattispecie concreta, maggiormente pertinenti all’esercizio della discrezionalità riconosciuta dall’art. 132 c.p., con una valutazione calibrata sulla specificità delle pene accessorie fallimentari, avendo riguardo, sotto il profilo della gravità del reato, a: 1) le modalità dei fatti (ad es., commissione di fatti di bancarotta patrimoniale, mediante complesse operazioni infragruppo, o fittizi svuotamenti societari, o articolate operazioni di frodi fiscali); 2) la gravità del danno o del pericolo cagionato (entità del depauperamento, numero dei creditori coinvolti, ecc.); 3) l’intensità del dolo, anch’essa desumibile dalle modalità dei fatti, e dalla insidiosità delle condotte; e, sotto il profilo della capacità a delinquere del colpevole, soprattutto con riferimento alla funzione di estromissione dalle attività economiche che hanno consentito la commissione di reati di bancarotta, al criterio dei precedenti penali e giudiziari, che, nell’ottica di una individualizzazione del trattamento sanzionatorio accessorio, diretto ad interdire comportamenti economici pericolosi, deve essere valutato in quanto espressivo di una capacità a delinquere specifica, attinente allo svolgimento di attività economiche ed imprenditoriali, e, dunque, alla funzione interdittiva coessenziale alle pene accessorie fallimentari”;

ove la durata delle pene accessorie fallimentari sia determinata in misura superiore alla media edittale, è necessaria una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi e oggettivi di cui all’art. 133 c.p., tenendo conto della funzione special-preventiva della pena, con un onere motivazionale maggiore, nel caso di significativa divaricazione nel trattamento sanzionatorio complessivo tra pena principale, irrogata nel minimo, e pene accessorie fissate nel massimo”.

3.5. Precisati i principi ai quali i giudici di merito devono conformarsi nella determinazione della concreta durata delle pene accessorie fallimentari, e nell’assolvimento dei connessi oneri motivazionali, va rilevato che, nel caso di specie, la Corte territoriale ha confermato la durata di 10 anni delle pene accessorie fallimentari, giustificandone la misura con riferimento “all’entità oggettiva della condotta ed alla personalità del prevenuto”, desunta dai precedenti penali e dall’assenza di condotte riparatorie.

Al riguardo, va innanzitutto rilevata l’incongruenza di tale motivazione, rispetto al riconoscimento, da parte dello stesso giudice di merito, di un ruolo di minore rilevanza (relativamente alle condotte del fratello deceduto e delle nipoti beneficiarie delle distrazioni) del C.C. nella vicenda; inoltre, il richiamo dei precedenti penali (uno per insolvenza fraudolenta, ed uno per appropriazione indebita), al di là della valutazione soltanto astratta della natura patrimoniale dei reati, non appare calibrato sulla concreta specificità delle condotte, né sulla attitudine dimostrativa di una capacità a delinquere specifica (in ambito imprenditoriale), risolvendosi dunque in una clausola di stile ed in una motivazione, che, nella sua ellitticità, resta apparente; anche il richiamo alla gravità del fatto non risulta calibrata sulla peculiare funzione delle pene accessorie, risolvendosi, in sostanza, in un tautologico riferimento alla stessa condotta del reato, senza alcuna successiva e concreta valutazione e delibazione funzionale, giustificativa della ragione per la quale le pene accessorie interdittive dovessero essere determinate nel massimo e non in diversa misura, anche considerando la significativa divaricazione della durata della pena detentiva, determinata nel minimo edittale di tre anni di reclusione.

Alla luce di tali considerazioni, il generico riferimento del giudice di merito ai richiamati parametri, oltre che contraddittorio, non appare sufficiente, dovendo egli dare conto in motivazione, in maniera autonoma ed indipendente rispetto alla pena principale (peraltro fissata nel minimo), delle modalità di esercizio degli ampi margini di discrezionalità astrattamente riconosciuti dalla norma penale (successivamente alla declaratoria di illegittimità costituzionale), e concretamente impiegati nella commisurazione delle pene accessorie.

La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata limitatamente al punto della determinazione della durata delle pene accessorie fallimentari, con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla durata delle pene accessorie ex art. 216 u.c. L. Fall. e rinvia per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano; rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, il 30 aprile 2021.