La qualificazione di un volume come “tecnico”, dipende dalla qualità intrinseca e oggettiva del medesimo, e non dalla circostanza che il volume in questione, per scelta del proprietario dell’immobile, venga, di fatto, destinato a contenere impianti tecnici. Ne consegue, che tanto i locali destinati a ospitare gli impianti sono da considerare, a tutti gli effetti, rilevanti dal punto di vista volumetrico.
Consiglio di Stato sez. VI, 29/7/2022 n.6681.
NORME DI LEGGE
Art. 22 DPR 380/2001 (Interventi subordinati a denuncia di inizio attività).
1. Sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli interventi non riconducibili all’elenco di cui all’articolo 10 e all’articolo 6, che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente.
2. Sono, altresì, realizzabili mediante denuncia di inizio attività le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire. Ai fini dell’attività di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini del rilascio del certificato di agibilità, tali denunce di inizio attività costituiscono parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell’intervento principale e possono essere presentate prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori.
3. In alternativa al permesso di costruire, possono essere realizzati mediante denuncia di inizio attività:
a) gli interventi di ristrutturazione di cui all’articolo 10, comma 1, lettera c);
b) gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti; qualora i piani attuativi risultino approvati anteriormente all’entrata in vigore della legge 21 dicembre 2001, n. 443, il relativo atto di ricognizione deve avvenire entro trenta giorni dalla richiesta degli interessati; in mancanza si prescinde dall’atto di ricognizione, purché il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l’esistenza di piani attuativi con le caratteristiche sopra menzionate;
c) gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche.
4. Le regioni a statuto ordinario con legge possono ampliare o ridurre l’ambito applicativo delle disposizioni di cui ai commi precedenti. Restano, comunque, ferme le sanzioni penali previste all’articolo 44.
5. Gli interventi di cui al comma 3 sono soggetti al contributo di costruzione ai sensi dell’articolo 16. Le regioni possono individuare con legge gli altri interventi soggetti a denuncia di inizio attività, diversi da quelli di cui al comma 3, assoggettati al contributo di costruzione definendo criteri e parametri per la relativa determinazione.
6. La realizzazione degli interventi di cui ai commi 1, 2 e 3 che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative. Nell’ambito delle norme di tutela rientrano, in particolare, le disposizioni di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490.
7. E’ comunque salva la facoltà dell’interessato di chiedere il rilascio di permesso di costruire per la realizzazione degli interventi di cui ai commi 1 e 2, senza obbligo del pagamento del contributo di costruzione di cui all’articolo 16, salvo quanto previsto dal secondo periodo del comma 5. In questo caso la violazione della disciplina urbanistico-edilizia non comporta l’applicazione delle sanzioni di cui all’articolo 44 ed è soggetta all’applicazione delle sanzioni di cui all’articolo 37.
Art. 3, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.
1. Il mancato rispetto dell’altezza, dei distacchi, della cubatura, della superficie coperta e di ogni altro parametro delle singole unità immobiliari non costituisce violazione edilizia se contenuto entro il limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo.
2. Fuori dai casi di cui al comma 1, limitatamente agli immobili non sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, costituiscono inoltre tolleranze esecutive le irregolarità geometriche e le modifiche alle finiture degli edifici di minima entità, nonché la diversa collocazione di impianti e opere interne, eseguite durante i lavori per l’attuazione di titoli abilitativi edilizi, a condizione che non comportino violazione della disciplina urbanistica ed edilizia e non pregiudichino l’agibilità dell’immobile.
3. Le tolleranze esecutive di cui ai commi 1 e 2 realizzate nel corso di precedenti interventi edilizi, non costituendo violazioni edilizie, sono dichiarate dal tecnico abilitato, ai fini dell’attestazione dello stato legittimo degli immobili, nella modulistica relativa a nuove istanze, comunicazioni e segnalazioni edilizie ovvero con apposita dichiarazione asseverata allegata agli atti aventi per oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento della comunione, di diritti reali.
GIURISPRUDENZA
FATTO E DIRITTO
Ultimato il consolidamento strutturale di un fabbricato ubicato a Napoli, nella (omissis), assentito mediante denuncia di inizio attività (DIA) n. 23 del 2004, la Ro. A. s.r.l. ha presentato al Comune una nuova DIA, la n. 212 del 2005, per l’esecuzione di lavori di ristrutturazione edilizia, mediante parziale demolizione e ricostruzione, senza aumento di volume, del detto edificio, adibito a struttura alberghiera (Ro. Hotel).
A lavori ultimati, l’ottavo piano, limitatamente allo spazio esterno adibito a palestra, e il nono piano, destinato a ristorante, sono stati sottoposti a sequestro penale sul presupposto che le dette opere fossero state eseguite in assenza di permesso di costruire.
Recependo integralmente la contestazione elevata dal giudice penale, il comune ha adottato l’ordinanza 16/9/2009, n. 399, con cui ha ingiunto la demolizione del nono piano e di parte dell’ottavo piano del fabbricato in questione.
Ritenendo il provvedimento sanzionatorio illegittimo, la Ro. Alberghi lo ha impugnato con ricorso al T.A.R. Campania – Napoli n. 7185/2009.
Successivamente la Ro. Alberghi ha proposto otto ricorsi per motivi aggiunti con i quali ha esteso il gravame a una serie di atti, anche endoprocedimentali, adottati dal Comune nelle more del giudizio.
In particolare, per quanto qui rileva, ha, tra l’altro, impugnato:
a) gli artt. 124 e 12 N.T.A. della variante generale al P.R.G.;
b) il PRG del 1972;
c) le determinazioni dirigenziali n. 4 del 19/10/2011 del Dirigente della II Municipalità e n. 419, in pari data, del Servizio Antiabusivismo con cui è stata annullata la DIA n. 212/2005 e, contestualmente, è stata ordinata la demolizione per una parte degli abusi, ed è stata irrogata una sanzione pecuniaria per i restanti illeciti;
d) il provvedimento in data 26/8/2010 di archiviazione della DIA n. 367/2010, concernente opere di manutenzione interna dell’ottavo piano.
Tutti gli atti gravati con i motivi aggiunti, a eccezione di quelli oggetto del primo di tali motivi, sono stati impugnati dalla Ro. Alberghi con autonomo ricorso n. 6004/2010 e relativi motivi aggiunti.
Con ulteriore ricorso n. 289/2012, anch’esso seguito da motivi aggiunti, la medesima società ha nuovamente impugnato gli atti già in precedenza gravati a eccezione di quelli oggetto dei primi sei motivi aggiunti del ricorso n. 7185/2009.
Con separato ricorso n. 290/2012, anche l’ing. Gi. Sa., in qualità di direttore dei lavori oggetto di contestazione da parte del comune, ha proposto la medesima impugnazione di cui al ricorso n. 289/2012.
L’adito Tribunale ha definito i ricorsi con tre distinte sentenze. Nello specifico:
a) con sentenze 25/10/2016, n. 4920 e 28/10/2016, n. 5009 ha, rispettivamente, pronunciato sui ricorsi n. 7185/2009 e n. 6004/2010, in parte dichiarandoli inammissibili, in parte dichiarandoli improcedibili e in parte respingendoli;
b) con sentenza 14/11/2016, n. 5248 ha, riunito i ricorsi n. 289/2012 e 290/2012 e li ha respinti.
Avverso le citate sentenze nn. 4920/2016, 5009/2016 e 5248/2016 la Ro. Alberghi ha rispettivamente proposto gli appelli n. 3209/2017. 3254/2017 e 3488/2017.
La sentenza n. 5248/2016 è stata appellata anche dall’ing. Sa., con separato ricorso n. 4069/2017.
Per resistere agli appelli si sono costituiti, in tutti i giudizi, il Comune di Napoli e il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (poi Ministero per i Beni e le Attività Culturali) e, nei ricorsi nn. 3488/2018 e 4069/2017, anche la Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Napoli, mentre, nel solo ricorso n. 4069/2017, si è costituito, pure, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.
In tutti i giudizi il Comune di Napoli ha, inoltre, proposto appello incidentale.
Con successive memorie tutte le parti, a eccezione delle amministrazioni statali, hanno ulteriormente argomentato le rispettive tesi difensive.
Alla pubblica udienza del 30/6/2022 le cause sono passate in decisione.
Per evidenti ragioni di connessione i quattro appelli vanno riuniti onde definirli con unica sentenza.
In via preliminare occorre rilevare che le parti appellanti hanno presentato istanza di rinvio di udienza, assumendo a giustificazione della stessa, di aver domandato permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica, finalizzati all’esecuzione di lavori idonei a eliminare gli incrementi volumetrici oggetto di contestazione, il cui rilascio comporterebbe il venir meno dell’interesse alla decisione.
In sede di discussione orale, il difensore della Ro. Alberghi, insistendo nella richiesta di rinvio, ha, inoltre, dichiarato che tali lavori, pur senza con ciò voler prestare acquiescenza agli avversati provvedimenti, sarebbero state già avviati.
L’istanza non può trovare accoglimento, perché contraria alla norma di cui all’art. 73, comma 1-bis, del c.p.a., la quale consente il “rinvio della trattazione della causa solo per casi eccezionali”, dovendosi escludere che nella specie sia configurabile la richiesta condizione per l’ammissibilità del rinvio.
Peraltro, il Collegio non può fare a meno di rilevare che la trattazione della causa ha già subito numerosi rinvii per attendere la definizione della parallela vicenda penale, per cui, comunque, non si giustificano ulteriori differimenti reclamati facendo riferimento a istanze relative ad attività future dell’amministrazione, rese necessarie dall’esigenza di render conforme a legge il realizzato mediante ottemperanza alle ordinate demolizioni e presentazione di nuovi progetti.
Deve, pertanto, procedersi all’esame delle impugnazioni proposte, partendo dagli appelli principali.
In relazione a questi ultimi occorre, preliminarmente, rilevare, che tutti i motivi di ricorso, nelle parti in cui, di volta in volta, viene dedotto il difetto o la contraddittorietà della motivazione della sentenza, ovvero l’omessa pronuncia su censure dedotte, restano assorbiti dall’effetto devolutivo dell’appello, che consente al giudice di secondo grado di correggere e integrare eventuali deficit motivazionali della pronuncia impugnata (da ultimo Cons. Stato, Sez. VI, 1/6/2022, n. 4443; 23/11/2021, n. 7840; 3/11/2021, n. 7345).
Non sussiste nemmeno il prospettato vizio di eccesso di potere giurisdizionale in quanto, contrariamente a quanto dedotto, il giudice di prime cure non ha attribuito ai provvedimenti gravati un significato diverso da quello a essi proprio, né ha basato la decisione su vizi non riscontrati dall’amministrazione comunale.
Sempre in via preliminare, occorre, inoltre, puntualizzare che nessun vizio discende dal fatto che il Tribunale abbia disatteso le conclusioni espresse dal CTU in ordine alla legittimità dell’intervento per cui è causa.
Infatti, il giudice, quale peritus peritorum, non è vincolato a recepire le risultanze della disposta CTU, ben potendo discostarsene, attraverso un’analisi critica delle stesse che trovi, come nella fattispecie, riscontro in un’adeguata motivazione (Cons. Stato, Sez. II, 9/2/2022, n. 951; Cass. Civ., Sez. III, 7/4/2022, n. 11317), vieppiù allorquando il perito esprima valutazioni giuridiche che esorbitano dai propri compiti, competendo queste ultime esclusivamente all’organo giudicante.
Può ora procedersi all’esame delle singole impugnazioni principali, partendo dall’appello n. 3209/2017.
Col primo motivo si deducono le seguenti censure.
a) L’impugnata sentenza n. 4290/2016 sarebbe erronea nella parte in cui ha dichiarato improcedibile l’impugnazione dell’ordinanza di demolizione n. 399/2009, in quanto superata dai successivi provvedimenti ripristinatori.
Il Tribunale, invece, in ossequio alla norma di cui all’art. 34, comma 3, del c.p.a., e tenuto conto della domanda risarcitoria proposta in corso di giudizio, avrebbe dovuto dichiarare, pur senza annullarla, l’illegittimità dell’ordinanza, essendo stata questa adottata sulla base delle sole indagini compiute dal giudice penale e senza neanche menzionare la DIA 212 del 2005.
b) Non sarebbe condivisibile la statuizione con cui il giudice di prima istanza ha dichiarato inammissibili i primi, i secondi, i quarti, e i sesti motivi aggiunti, siccome diretti contro atti endoprocedimentali.
Infatti:
1) il primo ricorso per motivi aggiunti recherebbe solo censure integrative contro l’ordinanza n. 399/2009, pertanto anche in relazione a esso si sarebbe dovuto procedere ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a.;
2) il secondo ricorso per motivi aggiunti, oltre a riguardare l’avviso di avvio del procedimento di riesame (la cui natura endoprocedimentale non sarebbe in discussione), conterrebbe anche l’impugnativa di atti con cui il comune ha disatteso l’istanza di archiviazione del procedimento di autotutela;
3) il terzo ricorso per motivi aggiunti riguarderebbe anche l’art. 124 delle NTA del PRG, per cui, almeno per questa parte, il ricorso avrebbe dovuto trovare accoglimento, in base alle medesime considerazioni svolte in ordine al capo di sentenza relativo al settimo ricorso per motivi aggiunti;
4) il quarto ricorso per motivi aggiunti, quantunque concernente il diverso procedimento di riesame del condono edilizio assentito prima della presentazione della DIA n. 212/2005, tratterebbe l’illegittimità della riapertura di tale procedimento in base alla addotta sussistenza del vincolo paesistico e pertanto avrebbe dovuto essere accolto;
5) il sesto ricorso per motivi aggiunti sarebbe diretto contro atti, prodotti dal comune in altro giudizio, avente a oggetto il diniego della Soprintendenza rispetto alla richiesta comunale di parere ex art. 33, commi 3 e 4, del D.P.R. 6/6/2001, n. 380, atti dai quali si desumerebbe la nuova (perché contrastante col certificato di destinazione urbanistica rilasciato prima della presentazione della DIA) posizione assunta dall’ente in ordine alla sussistenza del vincolo paesistico, pertanto, per tale parte, il gravame avrebbe dovuto trovare accoglimento sussistendo l’interesse dell’appellante alla rimozione della nuova certificazione urbanistica e della coerente attestazione della Soprintendenza.
c) Sarebbe erronea la dichiarazione di parziale inammissibilità del settimo ricorso per motivi aggiunti.
Infatti, avrebbero dovuto trovare accoglimento le doglianze dedotte nei riguardi degli atti sotto indicati che attesterebbero, erroneamente, la sussistenza del vincolo paesistico sull’area in cui insiste l’immobile di proprietà dell’appellante:
1) le note del Dipartimento Urbanistico 11/3/2010, prot. 236/a e 17/3/2010, prot. 247/a;
2) la nota della Soprintendenza in data 27/10/2010;
3) i verbali 12/3/2008 e 8/4/2008 di validazione del formato digitale dei perimetri delle aree vincolate ai sensi del D. Lgs. 22/1/2004, 42 e il conforme certificato di destinazione urbanistica emesso successivamente alla realizzazione della ristrutturazione per cui è causa.
Le censure, più sopra sinteticamente riassunte, non possono trovare accoglimento.
E invero, le stesse risultano inammissibili, non essendo stati espressamente riproposti, in violazione del precetto di cui all’art. 101, comma 2, c.p.a., i motivi non esaminati dal giudice di prime cure, pronunciatosi solo in rito (ex plurimis Cons. Stato, Sez. VI, 19/5/2022, n. 3964; 28/3/2022, n. 2263; 2/1/2020, n. 23; 12/3/2018, n. 1525; Sez. V, 10/10/2019, n. 6908; Sez. IV, 28/3/2022, n. 2241; 2/11/2020, n. 6704; Sez. III, 22/2/2018, n. 1139).
In ogni caso le doglianze sono, anche, infondate.
Quella sub a), in quanto, con le determinazioni dirigenziali nn. 4/2011 e 419/2011, l’amministrazione comunale ha nuovamente disposto la demolizione delle opere già sanzionate con l’ordinanza n. 399/2009 assorbendone, così, gli effetti.
Del tutto correttamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto cessato l’interesse all’impugnazione di quest’ultima dichiarando, conseguentemente, improcedibile il relativo gravame.
Né può condividersi la tesi della Ro. Alberghi, secondo cui il giudice di prime cure, vista la domanda risarcitoria proposta, avrebbe, comunque, dovuto pronunciare sulla legittimità della citata ordinanza, ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a..
Difatti, anche ai fini risarcitori l’interesse ad agire, si sposta sulle determinazioni dirigenziali del 2011, atteso che, ove queste non risultassero illegittime, non vi sarebbe spazio per alcun risarcimento.
Ugualmente infondate risultano le ulteriori censure, in quanto il Tribunale ha correttamente rilevato che larga parte degli atti gravati con i motivi aggiunti (specificamente individuati nella gravata sentenza) avevano natura endoprocedimentale, per cui conseguentemente ne ha dichiarato inammissibile l’impugnazione.
A chiusura, comunque, di ogni contestazione si osserva che la domanda giudiziale si concentra, sostanzialmente, su due temi: l’esistenza del vincolo paesaggistico sull’area oggetto d’intervento e la sussistenza del riscontrato incremento volumetrico, questioni queste che saranno esplicitamente affrontate nel prosieguo della trattazione, esaurendo, così, ogni ambito controverso.
Col secondo motivo si censura la gravata sentenza nella parte in cui, discostandosi dalle conclusioni raggiunte dal consulente tecnico d’ufficio (CTU), ha ritenuto che la DIA n. 212/2005 avesse autorizzato non consentiti incrementi volumetrici.
In primo luogo, il Tribunale avrebbe affermato che l’intervento realizzato debba essere riguardato “in modo unitario e complessivo” di modo che la parcellizzazione dell’attività edilizia compiuta costituirebbe concorrente ragione per ritenere l’intervento stesso abusivo, tanto da rendere inammissibili per difetto d’interesse le censure rivolte contro l’art. 124 delle NTA del PRG.
Ma l’assunto, oltre che immotivato, esorbiterebbe dal perimetro dei suoi poteri giurisdizionali, dato che, nelle determinazioni 4/2011 e 419/2011, mancherebbe qualunque riferimento alla parcellizzazione dell’intervento edilizio.
In ogni caso, le considerazioni sul punto espresse dal Tribunale sarebbero infondate nel merito.
Infatti, la DIA n. 34/2004, che avrebbe, tra l’altro, consentito un leggero aumento di altezza si sarebbe consolidata, atteso che il comune avrebbe archiviato il relativo procedimento di annullamento in autotutela, le DIA nn. 225/2008 e 2553/2009 si riferirebbero a interventi eseguiti su un immobile diversi dal palazzo Lauro, la DIA n. 367/2010 riguarderebbe solo lavori interni di manutenzione al piano ottavo, per cui erroneamente il Tribunale si sarebbe sottratto all’onere di esaminare la censura relativa alla dedotta violazione dell’art. 124 delle NTA del PRG.
In secondo luogo, il giudice di prime cure avrebbe giudicato corretto l’esercizio del potere di autotutela con riguardo alle DIA n. 34/2004 e 212/2005.
Tuttavia, non avrebbe considerato che il procedimento di annullamento della prima sarebbe stato archiviato.
Quanto alla seconda, avrebbe errato nel ritenere che la stessa abbia assentito un non modesto ampliamento volumetrico, sull’inesatto presupposto che nel calcolo si dovessero computare anche quelli che nella DIA sono definiti come volumi tecnici.
E invero, non sarebbero state considerate le seguenti circostanze:
a) la D.I.A. 212/2005 sarebbe finalizzata al cambio di destinazione d’uso ad albergo, con la conseguente necessità di prevedere un’impiantistica imponente, ben diversa da quella che avrebbe caratterizzato il preesistente edificio;
b) il CTU avrebbe espressamente riconosciuto che l’utilizzo dei cavedi per l’allocazione degli impianti risulterebbe, data la molteplicità di questi ultimi, necessario e proporzionale; peraltro, ai sensi della normativa di sicurezza di cui al D. Lgs. n. 624/1994, i cavedi dovrebbero avere dimensioni tali da garantire la sicurezza dei manutentori.
Il Tribunale, che pur facendo riferimento alla sagoma dell’edificio non ha riscontrato alcuna difformità in relazione alla sua altezza, non avrebbe, considerato che negli edifici con destinazione alberghiera, anche i c.d. “luoghi statici sicuri”, costituirebbero volumi tecnici e non avrebbe, inoltre, tenuto conto del fatto che, la contestazione relativa all’incremento volumetrico derivante dallo spostamento verso l’esterno delle originarie pareti in ferro e vetri sarebbero contenute nelle sole determinazioni conclusive del procedimento, ma non nella comunicazione con cui quest’ultimo è stato avviato, con conseguente violazione delle garanzie partecipative.
L’appellante avrebbe, comunque, dimostrato in giudizio l’assenza del detto spostamento, mentre l’intervento avrebbe comportato soltanto l’ispessimento delle pareti attraverso la realizzazione di un c.d. “cappotto termico”, costituente anch’esso, volume tecnico. In ogni caso, l’incremento derivante dal detto ispessimento sarebbe inferiore al 2% della cubatura preesistente e, quindi, ammissibile, ai sensi dell’art. 34, comma 2-ter del D.P.R. n. 380/2001.
Non configurerebbe volume abusivo nemmeno la veranda adibita, a palestra, posta all’ottavo piano, trattandosi di uno spazio aperto occasionalmente chiuso con una tenda amovibile.
In definitiva, quindi, risultando computabili, nell’operazione di compensazione volumetrica, tutti i volumi tecnici di cui sopra, la DIA n. 212/2005 sarebbe pienamente ammissibile.
La proposta progettuale si sarebbe potuta, comunque, realizzare mediante DIA anche laddove avesse contemplato una maggiore cubatura, come si ricaverebbe dall’art. 22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001 che contempla la c.d. ristrutturazione pesante.
Né l’assentito intervento contrasterebbe con l’art. 124 delle NTA del PRG, peraltro, impugnato e su cui il giudice ha omesso di pronunciare.
E invero:
a) la norma richiama il precedente art. 12 che si occupa dei due tipi di ristrutturazione, quella con demolizione totale e ricostruzione e quella con demolizioni parziali e traslazione dei volumi;
b) come emergerebbe dall’art. 124, e in particolare dal suo quinto comma, l’obbligo di conservare l’originaria volumetria, riguarderebbe la sola ipotesi di demolizione totale con ricostruzione.
D’altra parte, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, la disciplina in esso contenuta prevarrebbe su quella eventualmente contrastante, degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi.
In ogni caso, ove interpretato nel senso di ammettere la ristrutturazione edilizia soltanto a parità di volume, senza distinzione tra le ristrutturazioni consistenti in demolizione totale e ricostruzione e quelle, invece, comportanti solo una diversa allocazione dei volumi, con demolizione parziale di alcuni tra quelli preesistenti, l’art. 124 risulterebbe illegittimo per violazione delle menzionate norme del D.P.R. n. 380/2001 e per eccesso di potere per aver omesso, l’amministrazione, di adeguare la disposizione alla sopravvenuta normativa di legge.
L’annullamento del capo di sentenza relativo all’impugnazione della DIA n. 212/2005 si rifletterebbe su quello concernente la definizione del gravame relativo alla DIA n. 367/2010 avente a oggetto solo lavori di manutenzione ordinaria.
Il Tribunale avrebbe errato anche laddove ha ritenuto non meritevole di positiva delibazione la denunciata violazione delle regole e dei principi che governano l’esercizio del potere di autotutela.
Al riguardo, il giudice, esorbitando dai propri poteri, avrebbe escluso che le impugnate determinazioni dirigenziali costituissero manifestazione del potere di agire in autotutela, attribuendo a esse una natura non collimante col contenuto delle medesime.
Inoltre, diversamente da quanto si assume in sentenza, la DIA non sarebbe viziata da una falsa rappresentazione dei fatti, per cui risulterebbero violati norme e principi in materia di autotutela, tenuto conto del tempo trascorso tra l’ultimazione dei lavori e l’avvio del riesame e l’enorme sproporzione tra l’affidamento riposto dal privato nella legittimità dell’intervento e quello pubblico all’applicazione della sanzione pecuniaria.
L’articolato mezzo di gravame, così sinteticamente riassunto, non merita accoglimento.
Assume carattere prioritario l’esame della censura con cui l’appellante contesta che l’intervento di cui alla DIA n. 212/2005 abbia comportato un aumento di cubatura.
Occorre premettere che, con le gravate determinazioni dirigenziali del 2011, l’amministrazione comunale ha constatato la realizzazione degli svariati illeciti in esse indicati e che, come correttamente rilevato dal Tribunale, la valutazione degli abusi edilizi richiede una visione complessiva e non atomistica delle opere eseguite, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva, non da ciascun intervento in sé considerato, ma dall’insieme dei lavori nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni (Cons. Stato, Sez. VI, 30/6/2020, n. 4170; 7/11/2019, n. 7601).
Ciò posto, il cuore della questione controversa consiste nello stabilire se, come l’appellante sostiene, i locali utilizzati per allocarvi gli impianti tecnici e quelli destinati a “luoghi statici sicuri” possano essere scomputati dalla cubatura destinata all’attività ricettiva, compensando così la maggior volumetria realizzata all’ottavo e al nono piano, e se, conseguentemente, l’intervento, non avendo comportato aumenti di volumetrici, potesse essere assentito.
La risposta non può che essere negativa, come del resto confermato anche dalla Cassazione Penale con sentenza 23/6/2021, n. 24479, pronunciata a conclusione della parallela vicenda penalistica.
Per pacifica giurisprudenza, la nozione di volume tecnico riguarda solo i volumi, realizzabili nei limiti imposti dalle norme urbanistiche, necessari a contenere quelle parti degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono, per esigenze di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell’edificio. Il volume tecnico, pertanto, afferisce a opere edilizie, allocate al di fuori del copro dell’edificio, di limitata consistenza volumetrica e completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali di tale costruzione (ex plurimis Cons. Stato, Sez. VI, 24/1/2022, n. 467; Sez. II, 3/11/2021, n. 7357; Sez. IV, 20/8/2021, n. 5966).
La qualificazione di un volume come “tecnico”, dipende, quindi, da una qualità intrinseca e oggettiva del medesimo, e non invece dalla circostanza che quest’ultimo, per una libera scelta del proprietario dell’immobile, venga, di fatto, destinato a contenere impianti tecnici.
Ne consegue, che tanto i locali destinati, nel caso concreto, a ospitare gli impianti, tanto i c.d. “luoghi statici sicuri”, sono da considerare, a tutti gli effetti, rilevanti dal punto di vista volumetrico.
Altrettanto infondata è la doglianza con cui si lamenta che non costituirebbe cubatura la chiusura dello spazio adibito a palestra ubicato all’ottavo piano, in considerazione del fatto che quest’ultima sarebbe stata realizzata con elementi amovibili e sarebbe destinata a soddisfare esigenze di natura temporanea e stagionale.
In base di una pacifica giurisprudenza, che il Collegio condivide, per opera di carattere precario deve intendersi quella, agevolmente rimuovibile, funzionale a esaudire un’esigenza fisiologicamente e oggettivamente temporanea (es. baracca o pista di cantiere, manufatto per una manifestazione ecc.), destinata a cessare dopo il tempo, normalmente breve, entro cui si realizza l’interesse finale che la medesima era destinata a soddisfare (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13/11/2019, n. 7792; 11/1/2018, n. 150; Sez. V, 25/5/2017, n. 2464).
È stato, inoltre, chiarito che il suddetto carattere deve essere escluso allorquando vi sia un’oggettiva idoneità del manufatto a incidere stabilmente sullo stato dei luoghi, essendo l’opera destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo, ancorché a termine, in relazione all’obiettiva e intrinseca natura della stessa (Cons. Stato, Sez. IV, 7/12/2017, n. 5762).
Da ciò discende, pure, che la natura precaria di un’opera non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente assegnatagli dal costruttore, rilevando piuttosto la sua oggettiva idoneità a soddisfare un bisogno non provvisorio attraverso la perpetuità della funzione (Cass. Pen., Sez. III, 8/2/2007 n. n. 5350).
Nel caso di specie non sono ravvisabili elementi atti a comprovare che il manufatto soddisfi il requisito della precarietà come sopra descritto.
Privo di pregio è, infine, il mezzo di gravame con cui si deduce che il comune avrebbe illegittimamente computato negli ulteriori volumi quelli derivanti dall’ispessimento delle pareti esterne finalizzato a ottenere una maggior efficienza energetica dell’edificio (c.d. cappotto termico).
Sul punto va precisato che in primo grado è stata dedotta, con riguardo a tale contestazione, unicamente la violazione dell’art. 34, comma 2-ter del D.P.R. n. 380/2001.
La doglianza è infondata perché, come più sopra rilevato, gli abusi edilizi non possono essere valutati atomisticamente e la maggior volumetria complessivamente realizzata dall’appellante supera la soglia di irrilevanza di cui all’invocata norma.
Dalle considerazioni svolte discende che l’intervento non era assentibile mediante DIA, contrastando esso con l’art. 124, comma 2, delle NTA del PRG, il quale consentiva la ristrutturazione edilizia, senza distinguere tra le varie tipologie, solo “a parità di volume”.
Al riguardo occorre puntualizzare che la tesi dell’appellante, secondo cui il citato art. 124 vieterebbe gli aumenti volumetrici solo in relazione alle ristrutturazioni che comportano demolizione totale e ricostruzione, non ha alcun fondamento normativo, non trovando, in particolare alcun aggancio, nel comma 5 del detto articolo, il quale non distingue tra ristrutturazione con demolizione totale e ricostruzione e ristrutturazione con demolizione parziale e traslazione dei volumi.
Il menzionato art. 124 è stato, comunque, censurato dall’appellante per violazione degli artt. 3, comma 2 e 22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001 e per eccesso di potere derivante dal non aver l’amministrazione adeguato la disposizione alla suddetta normativa primaria, la quale, a detta dell’appellante, imporrebbe di differenziare tra ristrutturazione con demolizione totale e ricostruzione e ristrutturazione con demolizione parziale e diversa allocazione dei volumi, vietando gli incrementi volumetrici solo in relazione alla prima tipologia di intervento.
Le due doglianze, che possono essere trattate congiuntamente, non sono fondate.
L’art. 3, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 si limita a disporre che: “Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi”.
L’art. 22, comma 3, lett. a) del medesimo D.P.R., nel testo applicabile ratione temporis, stabilisce, a sua volta, che possono essere realizzati mediante denuncia di inizio attività: “gli interventi di ristrutturazione di cui all’articolo 10, comma 1, lettera c)”.
In base al testo del citato art. 10, comma 1, lett. c), vigente all’epoca di approvazione della variante al PRG le cui NTA contengono l’art. 124, tali sono “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso”.
Orbene, la trascritta normativa si limita a definire le varie tipologie di opere edilizie e a prevedere quale titolo abilitativo occorra per legittimarle, senza precludere all’amministrazione di vietare, in sede di pianificazione urbanistica, che, in una determinata zona, le ristrutturazioni edilizie, di qualunque tipo esse siano, comportino incrementi volumetrici.
Prive di pregio sono, altresì, le censure dirette a contestare i capi di sentenza con cui sono stati respinti i motivi con i quali era stata denunciata la violazione di regole e principi che governano l’esercizio del potere di autotutela.
E invero, come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, la DIA, in quanto avente a oggetto un intervento non ammissibile (perché comportante un non consentito aumento di cubatura), non si è mai perfezionata (Cons. Stato, Sez. II, 15/12/2020, n. 8032; Cass. Pen., Sez. IV, 18/9/2019, n. 38611; Sez. III, 8/4/2010, n. 17973), ciò rende irrilevante il richiamo a norme e principi sull’autotutela anche, se l’amministrazione vi abbia fatto espresso riferimento, ben potendo quest’ultima sanzionare i contestati lavori per il solo fatto di essere stai eseguiti in assenza di titolo edilizio.
Dalla reiezione della domanda impugnatoria discende, de plano, l’infondatezza di quella risarcitoria.
L’appello principale n. 3209/2017 è, dunque, da respingere.
Occorre ora procedere all’esame dell’appello principale n. 3254/2017.
Col primo mezzo di gravame si censurano i capi di sentenza concernenti le dichiarazioni di improcedibilità e inammissibilità di alcune delle impugnazioni proposte.
La doglianza è inammissibile per la mancata riproposizione delle doglianze prospettate in primo grado (giurisprudenza pacifica, si rimanda, comunque, alle pronunce citate in sede di esame del primo motivo del precedente appello n. 3209/2017).
Anche in questo caso può, comunque, rilevarsi come il giudice di prime cure abbia, correttamente, individuato gli atti di natura endoprocedimentale, la cui impugnazione era da dichiarare inammissibile.
Il secondo mezzo di gravame è identico a quello proposto col precedente ricorso n. 3209/2017, già più sopra respinto, per cui ne segue le stesse sorti.
Anche la domanda risarcitoria va respinta in conseguenza della reiezione di quella impugnatoria.
L’appello è, quindi, infondato.
È da respingere anche l’appello n. 3488/2017.
E invero, la domanda impugnatoria, si fonda su censure, sostanzialmente, identiche, a quelle prospettate col secondo motivo di ciascuno dei due precedenti appelli, per cui non può trovare accoglimento per identiche ragioni, mentre la domanda risarcitoria, è infondata in conseguenza della reiezione di quella impugnatoria.
Va, infine, esaminato l’appello n. 4069/2017.
In via preliminare va affrontata l’eccezione, sollevata dal comune appellato con la memoria difensiva depositata in giudizio in data 28/1/2019, con la quale si deduce che l’appellante principale non sarebbe stato legittimato a proporre l’impugnazione di primo grado.
L’eccezione è inammissibile.
E invero, il Tribunale si è espressamente pronunciato sulla legittimazione attiva dell’ing. Sa., riconoscendone la sussistenza, pertanto il relativo capo di sentenza avrebbe dovuto essere gravato con apposito motivo d’appello, non potendo la doglianza essere introdotta con semplice memoria non notificata alle controparti.
L’eccezione sarebbe, comunque, infondata atteso che i provvedimenti sanzionatori si rivolgono anche nei confronti dell’ing. Sa., come si ricava dal fatto che l’ordine è diretto “ai destinatari in indirizzo”, fra i quali, per l’appunto, figura il suddetto ing. Sa..
Il gravame va pertanto affrontato nel merito.
Con i primi quattro motivi si propongono censure sostanzialmente analoghe a quelle già più sopra trattate in sede di esame del secondo motivo dell’appello n. 3209/2017, che, pertanto, vanno respinte per le medesime ragioni.
Col quinto e sesto motivo si ripropongono doglianze tralasciate dal giudice di prime cure.
Col primo di essi si deduce che il provvedimento impugnato sarebbe viziato da sviamento di potere, la cui sussistenza sarebbe dimostrata dall’erroneità della motivazione e dal richiamo alle contese con la Sovrintendenza per la scelta delle misure sanzionatorie da applicare, ancorché difettassero i presupposti per l’adozione delle stesse.
Col secondo si lamenta che l’atto di autotutela sarebbe viziato in quanto l’amministrazione non avrebbe considerato le osservazioni presentate in sede procedimentale.
Le due doglianze, che si prestano a una trattazione congiunta, non meritano accoglimento.
Come già più sopra evidenziato, il mancato perfezionamento della DIA, rende irrilevanti eventuali vizi del procedimento di autotutela.
Quanto all’ulteriore illegittimità dedotta, basta rilevare che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, affinché la censura di sviamento di potere possa ritenersi fondata, occorre che gli elementi emersi rivelino in modo indubbio il dissimulato scopo dell’atto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 5/2/2018, n. 725; 28/2/2017, n. 930; 28/6/2016, n. 2912 e 13/2/1993, n. 245; Sez. IV, 14/7/2015, n. 4392 e 27/4/2005, n. 1947), condizione questa che, nella fattispecie, non sussiste.
Per quanto rivolta contro gli adottati provvedimenti sanzionatori la lagnanza risulta, inoltre, inammissibile, atteso che lo sviamento di potere, quale vizio tipico delle potestà discrezionali, non è configurabile in relazione ad atti, come quelli di che trattasi, che hanno, pacificamente, natura vincolata.
Anche l’appello n. 4069/2017, va, in definitiva, respinto.
Occorre, ora, procedere all’esame degli appelli incidentali proposti dal Comune di Napoli in relazione a tutti i ricorsi principali sin qui affrontati.
Con essi si denuncia l’errore commesso dal Tribunale nel disconoscere che l’area su cui sorge il fabbricato oggetto del contestato intervento edilizio, fosse soggetta al vincolo paesaggistico ex lege di cui all’art. 142, comma 1, lett. a), del D. Lgs. 22/1/2004, n. 42.
Lamenta l’amministrazione comunale che, trattandosi di area compresa nella fascia costiera dei 300 metri dalla linea di battigia, sarebbe rimasta esclusa dal vincolo solo ove fosse risultata inclusa in zona A o B alla data del 6/9/1985.
Orbene, l’unico elaborato grafico del PRG del 1972, a cui far riferimento per la classificazione in zone del territorio comunale, sarebbe la tavola 3, che colloca l’area in questione in zona D.
Solo tale tavola avrebbe, infatti, ricevuto l’approvazione ministeriale, all’epoca richiesta, mentre la tavola 5, che classifica l’unità immobiliare in questione come zona B, non sarebbe stata approvata.
La doglianza è fondata.
Al riguardo è sufficiente rilevare che, come emerge dagli atti di causa, il PRG del 1972 è stato approvato con D.M. 31/3/1972, n. 1829, senza che la tavola 5 risulti fra gli allegati approvati.
Vanno, pertanto, accolti gli appelli incidentali, con conseguente riforma in parte qua delle gravate sentenze.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi o eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Sussistono eccezionali ragioni per disporre l’integrale compensazione di spese e onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, così dispone:
a) riunisce gli appelli nn. 3209/2017, 3254/2017, 3488/2017 e 4069/2017;
b) respinge gli appelli principali di cui ai citati ricorsi;
c) accoglie gli appelli incidentali a essi afferenti e, per l’effetto, in parziale riforma delle gravate sentenze, respinge i relativi ricorsi di primo grado anche con riguardo al motivo con cui è stata contestata l’affermata sussistenza del vincolo ex lege sull’area di proprietà della Ro. Alberghi.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 giugno 2022 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro, Presidente
Alessandro Maggio, Consigliere, Estensore
Giordano Lamberti, Consigliere
Davide Ponte, Consigliere
Marco Poppi, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 29 LUG. 2022.