Reati contro la persona

Le vittime di stalking (art. 612bis c.p., comma 1, 2 e 3) possono richiedere l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato anche in deroga ai limiti di reddito previsti dalla legge. Possono prescindere dalla produzione dell’attestazione ISEE anche le persone offese per i reati di maltrattamenti in famiglia, pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, violenza sessuale, atti persecutori, nonché, ove commessi in danno di minori, per i reati di riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, pornografia minorile, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi, corruzione di minorenne, adescamento di minorenni.

Corte di Cassazione sez. IV penale, 5.4.2022 n. 16272.

NORME DI LEGGE

Art.    612 bis (Atti   persecutori). –   Salvo   che   il   fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a  quattro  anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura  ovvero  da  ingenerare  un  fondato  timore  per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione  affettiva  ovvero  da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato  o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.

La  pena è  aumentata  fino  alla  metà se il fatto è commesso a danno  di  un  minore,  di  una donna in stato di gravidanza o di una persona  con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.

Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la  proposizione  della  querela è  di sei mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona  con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992,  n.  104, nonché’ quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

GIURISPRUDENZA

Corte di Cassazione sez. IV penale, 5.4.2022 n. 16272.

1.Con ordinanza del 30/4/2021 la Corte di Appello di Catanzaro rigettava il ricorso proposto da N.A., in qualità di parte civile costituita per il reato ex art. 612 bis c.p., comma 1, 2 e 3 nell’ambito del procedimento penale n. 3720/16 RG e 148/18 RGP della Corte di Appello di Catanzaro, avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato emesso dalla medesima Corte di appello di Catanzaro il 3/6/2020.

2.Ricorre la N., a mezzo del proprio difensore di fiducia e procuratore speciale, deducendo, quale unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1 la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 75,76,79 e 112 e l’illogicità della motivazione del provvedimento impugnato.

Si ricorda in ricorso che l’odierna ricorrente, N.A., ebbe a denunciare che, sin dal mese di (OMISSIS), aveva subito una serie di atti lesivi dell’integrità psicofisica da parte di A.D.. Tali condotte – secondo la denuncia – venivano perpetrate sia durante la loro relazione sentimentale, sia successivamente alla decisione della ragazza di interromperla, con l’uomo che le avrebbe imposto il suo carattere aggressivo e prevaricatore, così arrecandole grande sofferenza e prostrazione e facendola vivere in uno stato costante di ansia e di timore per la propria incolumità e per quella dei propri congiunti, al punto da costringerla a modificare le sue abitudini di vita. In particolare, a causa della sua ossessiva gelosia, l’uomo le avrebbe impedito di uscire con altre persone e perfino con la madre, ne avrebbe controllato gli spostamenti, l’avrebbe picchiava per futili motivi e costretta con minacce a dimettersi dal posto di lavoro. Dopo la fine della loro relazione sentimentale, l’avrebbe assillata con continui pedinamenti e appostamenti anche nei pressi della sua abitazione e allorquando la stessa usciva con le sue amiche o amici con i suoi familiari, con telefonate sulla utenza e su quella della madre, tanto da costringerla a non uscire più da sola e a farsi accompagnare da parenti o amici in ogni suo spostamento.

A seguito della denuncia si instaurava un procedimento penale, in relazione al quale N.A., persona offesa dell’ipotizzato reato di stalking (art. 612bis c.p., comma 1, 2 e 3), inoltrava richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, beneficio al quale – si sostiene in ricorso – avrebbe dovuto essere ammessa anche in deroga ai limiti di reddito previsti dalla legge, a prescindere dalla produzione dell’attestazione ISEE.

Ricorda il ricorrente che la propria assistita, nell’istanza di ammissione presentata il 22/3/2020, ebbe ad indicare le generalità complete proprie e di tutti i componenti del proprio nucleo familiare, con l’indicazione dei relativi codici fiscali.

Tuttavia – ci si duole – la richiesta venne rigettata, ad avviso del ricorrente, in seguito ad una illegittima ed illogica applicazione della normativa, laddove, muovendo da una falsa applicazione delle norme di riferimento, la Corte calabrese ha ritenuto occorresse produrre l’attestazione ISEE rilasciata dall’INPS e comprovante la situazione reddituale dell’istante, l’autocertificazione che l’avvocato risultasse iscritto nel registro del gratuito patrocinio e i documenti di riconoscimento, con indicazione del codice fiscale dei componenti il nucleo familiare. E quel decreto di rigetto – lamenta il ricorrente – venne pedissequamente, acriticamente ed illogicamente confermato dalla stessa Corte di appello di Catanzaro in sede di opposizione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 99.

Il difensore ricorrente riporta il testo dell’ordinanza impugnata denunciandone quello che a suo avviso sarebbe un evidente vizio della motivazione nonché una falsa ed erronea applicazione della normativa di riferimento.

Si ricorda in ricorso che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 4-ter prevede che, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, possa prescindersi dai limiti reddituali per la persona offesa per i reati di cui agli art. 572 (maltrattamenti in famiglia), art. 583-bis (pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili), artt. 609-bis, 609-quater, 609-octies (violenza sessuale) e art. 612-bis (atti persecutori), nonché, ove commessi in danno di minori, per i reati di cui agli artt. 600 (riduzione in schiavitù), art. 600-bis (prostituzione minorile), art. 600-ter (pornografia minorile), art. 600-quinquies (iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile), art. 601 (tratta di persone), art. 602 (acquisto e alienazione di schiavi), art. 609-quinquies (corruzione di minorenne) e art. 609-undecies (adescamento di minorenni).

Ebbene, si sottolinea che, nel caso in esame, la N. ebbe a richiedere l’ammissione al beneficio, in qualità di parte civile costituita proprio per uno di questi reati, ovvero per quello di cui all’art. 612bis c.p., comma 1, 2 e 3, per cui avrebbe dovuto essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dalla legge a prescindere dalla produzione dell’attestazione ISEE.

Ancora, si sottolinea in ricorso che, in funzione dell’esistenza delle deroghe di cui all’art. 76, comma 4, non potrebbe trovare applicazione completa la disposizione contenuta al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 79 rubricata “contenuto dell’istanza”, ove è previsto testualmente che (…). L’istanza è redatta in carta semplice e, a pena di inammissibilità, contiene: a) la richiesta di ammissione al patrocinio e l’indicazione del processo cui si riferisce, se già pendente, b) le generalità dell’interessato e dei componenti la famiglia anagrafica, unitamente ai rispettivi codici fiscali; c) una dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte dell’interessato, ai sensi del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 46, comma 1, lett. o), attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l’ammissione, con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini, determinato secondo le modalità indicate nell’art. 76; d) l’impegno a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito, verificatesi nell’anno precedente, entro trenta giorni dalla scadenza del termine di un anno, dalla data di presentazione dell’istanza o della eventuale precedente comunicazione di variazione.

3.Per i redditi prodotti all’estero, il cittadino di Stati non appartenenti all’Unione Europea correda l’istanza con una certificazione dell’autorità consolare competente, che attesta la veridicità di quanto in essa indicato.

4.Gli interessati, se il giudice procedente o il consiglio dell’ordine degli avvocati competente a provvedere in via anticipata lo richiedono, sono tenuti, a pena di inammissibilità dell’istanza, a produrre la documentazione necessaria ad accertare la veridicità di quanto in essa indicato “.

Tenuto conto del combinato disposto di tali disposizioni a ben vedere, secondo il ricorrente – al contrario di quanto erroneamente ritenuto nel provvedimento impugnato – l’istanza di ammissione dell’odierna ricorrente presentata il 22/3/2020 era corredata di tutto quanto necessario, ovvero dell’indicazione delle generalità complete di tutti i componenti del nucleo familiare, con l’indicazione dei codici fiscali di tutti i componenti.

Invece, erroneamente ed illogicamente, i giudici calabresi hanno ritenuto che l’istanza presentata dalla N. fosse ab origine immeritevole di accoglimento, per l’omessa l’indicazione dei dati sopra ricordati.

E’ vero – si sottolinea in ricorso – che l’istanza di patrocinio a spese dello Stato deve necessariamente contenere una specifica indicazione di tutti i componenti del nucleo familiare con i loro codici fiscali. Ma è pur vero, e se ne ha una facile quanto concreta prova in atti, che nel caso di specie la N. ha specificamente e regolarmente indicato le generalità e i relativi codici fiscali di tutti i componenti del proprio nucleo familiare, difettando perciò il presupposto del rigetto rilevato nel provvedimento impugnato.

Nessuna rilevanza avrebbe, invece, l’addotta circostanza della mancata allegazione della certificazione del difensore dell’iscrizione nell’albo degli avvocati abilitati al patrocinio a spese dello Stato, e ciò poiché tale requisito – facilmente evincibile dal pubblico elenco del Foro di appartenenza – non è previsto a pena di inammissibilità.

Ne’, peraltro, vi è stata alcuna richiesta di integrazione di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 80 con la quale il giudicante avrebbe potuto richiedere ulteriore documentazione – non prevista a pena di inammissibilità della domanda – così consentendo la fruizione del beneficio all’istante.

Per il ricorrente, infine, illogico ed erroneo sarebbe l’aver ritenuto nell’ordinanza impugnata che la normativa di riferimento consentisse una valutazione di tipo reddituale, esclusa sia dalla giurisprudenza di legittimità che dalla Corte costituzionale.

Ricorda la ricorrente che, con la sentenza n. 1/2021, la Corte costituzionale ha posto fine al dibattito relativo al patrocinio a spese dello Stato nei confronti delle vittime di reati di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e stalking. Per le vittime di tali violenze, si legge nella sentenza, sarà garantito il gratuito patrocinio, indipendentemente da reddito e situazione economica.

La decisione della Consulta – evidenzia la ricorrente- è stata richiesta in seguito ad un incidente di costituzionalità sollevato nei confronti del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 4-ter.

Secondo il GIP del Tribunale di Tivoli, l’automatismo legislativo per cui la persona vittima di violenza di genere ha sempre diritto al gratuito patrocinio nonostante il suo reddito, avrebbe comportato una violazione del principio di eguaglianza sancito all’art. 3 Cost. e del principio di cui all’art. 24 Cost (gratuito patrocinio ai non abbienti).

La sentenza della Consulta ha, invece, stabilito che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 4-ter, non è da ritenersi contrario alla Costituzione, in quanto il criterio che guida l’applicazione della norma “non è il reddito, ma la condizione di vulnerabilità” delle vittime, nella maggior parte donne. In questo senso, voler garantire il gratuito patrocinio indipendentemente dalla disponibilità economica della donna è indicatore della volontà di incoraggiare le denunce di tali reati, che proprio a causa della loro natura risultano molto difficili da affrontare e da riportare. Il fine della norma, dunque, consiste nel poter offrire “un concreto sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima” e nell’incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità”.

Sul punto ricorda il difensore ricorrente che già nel 2017 e nel 2018 questa Corte è intervenuta nel dibattito, affermando che la corretta lettura della norma consiste nel sottolineare l’obbligatorietà del gratuito patrocinio, indipendentemente dal reddito della vittima di violenza.

Con la sentenza costituzionale del 20121, quindi, tale obbligatorietà del gratuito patrocinio viene definitivamente sancita, sottolineando come tale valutazione sia “del tutto ragionevole e frutto di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità da parte del legislatore”.

Sull’inciso della lettera dell’art. 76, comma 4-ter “può essere ammessa”, e quindi sulla circostanza che il giudice abbia nel caso in esame una mera facoltà o ha il dovere di accogliere la domanda di accesso al beneficio, del resto aveva già risposto Sez. 4 n. 13497/2017.

La ratio della norma -era stato sottolineato – è sicuramente quella di consentire alle vittime ditali reati di accedere liberamente alla giustizia affinché gli autori degli stessi possano essere sanzionati penalmente dall’ordinamento (soprattutto in un’ottica di tutela della collettività) nonché condannati al giusto ristoro in favore della stessa persona offesa. Il giudice di legittimità ha, dunque, chiarito da tempo che, tenendo conto di tale scopo, il termine “può” deve essere inteso come dovere del giudice di accogliere l’istanza di ammissione al gratuito patrocinio nel caso in cui essa sia presentata proprio dalla “persona offesa” vittima del reato. Se il legislatore avesse utilizzato il termine “deve”, infatti, avrebbe potuto creare l’obbligo in capo al giudice di ammettere la parte lesa al beneficio de quo anche in assenza di una espressa istanza.

Ricorda la ricorrente che questa Suprema Corte ha precisato, altresì, che la stessa prerogativa non va invece riconosciuta alla eventuale “persona danneggiata” dal reato per espressa previsione legislativa, che fa riferimento solo alla “persona offesa”. Sul punto è necessario osservare che l’interpretazione restrittiva va sicuramente riferita al solo caso in cui persona offesa e danneggiato dal reato non coincidano. Ed infatti giova considerare che l’assistenza legale remunerata dallo Stato è soprattutto quella offerta al soggetto costituito parte civile nel giudizio penale, per cui si cadrebbe in un nonsenso ritenendo questa pronuncia non estesa alla persona offesa che si costituisca per fare valere le sue pretese risarcitorie. Dovendosi evidenziare che, in caso di condanna dell’autore dell’illecito, lo Stato si potrà rivalere sullo stesso per le spese legali “anticipate” in favore della persona offesa costituita parte civile.

Per la ricorrente non sussistono, quindi, con tutta evidenza nel caso di specie, per come invece ritenuto nella succinta e contraddittoria motivazione posta a base del provvedimento quivi gravato, i presupposti necessari al fine di ritenere la carenza delle indicazioni previste dalla normativa di riferimento, quali corretto ed indispensabile contenuto dell’istanza ai fini la fruizione del patrocinio a spese dello Stato, risultando, invece, la dichiarazione dell’istante assolutamente precisa e completa in tutti gli elementi necessari previsti dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76 e 79 (compreso quello di cui alla lett. c)) a pena di inammissibilità.

Il provvedimento impugnato, peraltro, di cui si chiede l’annullamento, contrasterebbe con i principi direttivi della Costituzione Europea nonché della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che sanciscono l’obbligo per gli Stati membri di garantire in modo effettivo e concreto il diritto di difesa dei non abbienti.

5.In data 9/2/2022 il PG presso questa Corte di legittimità ha rassegnato le proprie conclusioni scritte ex art. 611 c.p.p. chiedendo annullarsi con rinvio il provvedimento impugnato.

Considerato in diritto

1.I motivi sopra illustrati sono fondati e, pertanto, l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Catanzaro.

2.In premessa, va rilevato che appare errato il richiamo che la Corte territoriale opera al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170 norma afferente al decreto di pagamento emesso a favore dell’ausiliario del magistrato, del custode e delle imprese private cui è affidato l’incarico di demolizione e riduzione in pristino.

Nel caso in esame, infatti, alla Corte territoriale era stato presentato ricorso avverso il provvedimento con cui il magistrato competente rigetta l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che trova la propria fonte normativa nel medesimo D.P.R. n. 115 del 2002, art. 99, comma 1.

Ciò precisato, ad avviso del Collegio appare fondata la lamentata violazione di legge, non apparendo corretta l’interpretazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 4 operata tanto dal giudice del rigetto che da quello dell’opposizione.

Secondo quest’ultimo ricorso non può essere accolto. Il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 4 ter prevede che: “la persona offesa dai reati di cui agli artt. 572,583 bis, 609 bis, 609 quater, 609 octies e 612 bis… c.p. può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti nel presente decreto”. Tale disposizione normativa consente dunque al giudice del processo penale di ammettere la persona offesa dai reati ivi elencati “anche in deroga” ai limiti reddituali stabiliti nello stesso art. 76 del testo unico sulle spese di giustizia. Trattasi di un potere discrezionale del giudice, che consente una deroga ai suddetti limiti, ma non prescinde in modo assoluto dalle condizioni reddituali e patrimoniali della persona offesa, la quale, pertanto è tenuta a fornire al giudice degli elementi di valutazione che gli permettano di determinarsi nell’esercizio, pur discrezionale, del potere di ammissione al beneficio demandatogli dal legislatore, posto che il gratuito patrocinio a spese dello Stato, anche per le vittime dei reati elencati nell’art. 76, comma 4 ter, postula comunque una condizione di disagio economico, che nel caso di specie non risulta in alcun modo documentata né adeguatamente prospettata neppure in questa sede di opposizione. Ne consegue che il ricorso va respinto…” (così pagg. 2 e 3 dell’ordinanza impugnata).

3.Orbene, non può non sottolinearsi come il provvedimento impugnato, che pure interviene dopo anni dalle pronunce di legittimità sul punto e dopo alcuni mesi dalla pronuncia costituzionale richiamata dal ricorrente, non ne operi una corretta applicazione.

Ed invero, già da alcuni anni questa Suprema Corte ha affermato il diritto della persona offesa da uno dei reati indicati nella norma a fruire del patrocinio a spese dello Stato per il solo fatto di rivestire tale qualifica, a prescindere dalle proprie condizioni di reddito, che, dunque, non devono neanche essere oggetto di dichiarazione o attestazione ai sensi del successivo D.P.R. n. 115 del 2002, art. 79,comma 1, lett. c), (così Sez. 4, n. 13497 del 15/02/2017, Mattioli, Rv. 269534; conf. Sez. 4, n. 52822 del 10/10/2018, A., Rv. 274618).

Tale lettura – si è sottolineato – è imposta dalla ratio della norma, posto che la finalità della stessa appare essere quella di assicurare alle vittime di quei reati un accesso alla giustizia favorito dalla gratuità dell’assistenza legale.

A fugare ogni possibile dubbio interpretativo è intervenuta poi la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2021 (udienza del 3/12/2020, deposito dell’11/1/2021) dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 76, comma 4-ter, nella parte in cui determina l’automatica ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dai reati indicati nella norma medesima, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 24 Cost., comma 3, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza del 13 dicembre 2019.

Il giudice rimettente – che aveva fondato il proprio interesse a rivolgersi alla Consulta proprio nella non condivisione dell’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, assurto al rango di diritto vivente aveva denunciato il contrasto della disposizione censurata con l’art. 3 Cost., in quanto istituisce un automatismo legislativo di ammissione al beneficio al solo verificarsi del presupposto di assumere la veste di persona offesa di uno dei reati indicati dalla medesima norma, con esclusione di qualsiasi spazio di apprezzamento e discrezionalità valutativa del giudice, disciplinando in modo identico situazioni del tutto eterogenee sotto il profilo economico; nonché con l’art. 24 Cost., comma 3, in quanto l’ammissione indiscriminata e automatica al beneficio di qualsiasi persona offesa da uno dei reati indicati porta a includere anche soggetti di eccezionali capacità economiche, a discapito della necessaria salvaguardia dell’equilibrio dei conti pubblici e di contenimento della spesa in tema di giustizia.

I giudici delle leggi hanno ritenuto manifestamente infondate tali doglianze, in primis, ricordando come la giurisprudenza costituzionale abbia, in più occasioni, ricondotto l’istituto del patrocinio a spese dello Stato nell’alveo della disciplina processuale (sentenza n. 81 del 2017; ordinanze n. 122 del 2016 e n. 270 del 2012), nella cui conformazione il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate (ex plurimis, sentenza n. 97 del 2019, sentenza n. 80 del 2020, in linea con la sentenza n. 47 del 2020 e ordinanza n. 3 del 2020).

Secondo la Corte costituzionale, la scelta effettuata con la disposizione in esame – che va, appunto, ricondotta nell’alveo della disciplina processuale rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la vulnerabilità delle vittime dei reati indicati dalla norma medesima oltre che le esigenze di garantire al massimo il venire alla luce di tali reati.

Viene ricordato che nel nostro ordinamento giuridico, specialmente negli ultimi anni, è stato dato grande spazio a provvedimenti e misure tese a garantire una risposta più efficace verso i reati contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale, considerati di crescente allarme sociale, anche alla luce della maggiore sensibilità culturale e giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori. Di qui la volontà di approntare un sistema più efficace per sostenere le vittime, agevolandone il coinvolgimento nell’emersione e nell’accertamento delle condotte penalmente rilevanti. Ed infatti, nel preambolo del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, nella L. n. 38 del 2009, che ha introdotto la disposizione in esame, si richiama “la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare una maggiore tutela della sicurezza della collettività, a fronte dell’allarmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale, attraverso un sistema di norme finalizzate al contrasto di tali fenomeni e ad una più concreta tutela delle vittime dei suddetti reati”.

Non diverse – si legge ancora nella sentenza 1/2021 della Corte costituzionale – sono le considerazioni sviluppate nel preambolo del D.L. 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella L. n. 119 del 2013.

E’ evidente, dunque, che la ratio della disciplina in esame è rinvenibile in una precisa scelta di indirizzo politico-criminale, che ha l’obiettivo di offrire un concreto sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità. Valutazione che appare del tutto ragionevole e frutto di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità da parte del legislatore.

A queste argomentazioni sulla non irragionevolezza della scelta del legislatore di accordare il beneficio del patrocinio a spese dello Stato sganciandolo dal presupposto della non abbienza, va aggiunta per i giudici delle leggi la considerazione che nel nostro ordinamento sono presenti altre ipotesi in cui il legislatore ha previsto l’ammissione a tale beneficio a prescindere dalla situazione di non abbienza. Viene ricordato, ad esempio, il precedente costituzionale con cui sì è affermato che la scelta di porre a carico dell’erario l’onorario e le spese spettanti all’avvocato e all’ausiliario del magistrato rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la peculiarità del procedimento di espulsione dello straniero e la necessità di non frapporre alcun ostacolo al perseguimento di questo fine (così l’ordinanza n. 439 del 2004). Valutazioni di analogo tenore possono, dunque, svolgersi per la disciplina di cui al censurato comma 4-ter.

La Corte costituzionale, peraltro, ha confutato anche il profilo di censura calibrato sull’automatismo del patrocinio a spese dello Stato quale presunzione assoluta, laddove il giudice a quo aveva segnalato che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la presunzione legislativa è immune da censure di legittimità costituzionale e resiste al vaglio di ragionevolezza solo quando vi sia “solida rispondenza all’id quod plerumque accidit” (così tra le altre, sia pure relative a ipotesi decisamente distanti da quelle in esame, sentenza n. 191 del 2020) e che “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell‘id quod plerumque accidit” (sentenza n. 268 del 2016; in precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e n. 139 del 1982). In particolare, l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglierebbe tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa.” (sentenza n. 253 del 2019).

Per i giudici delle leggi, tuttavia, il rimettente non coglie nel segno richiamando questa giurisprudenza, posto che nel caso in esame il beneficio non è legato ad una presunzione di non abbienza delle persone offese dai reati indicati dalla norma censurata e ha tutt’altre giustificazioni. La verifica della regola dell’id quod plerumque accidit dovrebbe, piuttosto, concernere la vulnerabilità delle persone offese dai reati presi in considerazione dal censurato comma 4-ter, in ordine alla cui sussistenza convergono significativi dati di esperienza e innumerevoli studi vittimologici.

Per quel che concerne, infine, la prospettata violazione dell’art. 24 Cost., comma 3, i giudici delle leggi si sono limitati ad evidenziare che il parametro evocato impone di assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. Esso non può, dunque, essere distorto nella sua portata, leggendovi una preclusione per il legislatore di prevedere strumenti per assicurare l’accesso alla giustizia, pur in difetto della situazione di non abbienza, a presidio di altri valori costituzionalmente rilevanti, come quelli in esame.

4.Va dunque ribadito il principio, anche alla luce del dictum del giudice delle leggi, cui dovrà adeguarsi il giudice del rinvio, che in tema di ammissione al patrocino a spese dello Stato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 76, comma 4-ter, la persona offesa da uno dei reati ivi elencati può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dallo stesso articolo; ne consegue che la relativa istanza necessita esclusivamente dei requisiti di cui all’art. 79 cit. Decreto, comma 1, lett. a) e b) e non anche dell’allegazione da parte dell’interessato, prevista dalla lett. c) medesimo articolo, di una dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l’ammissione.

Detto, pertanto, che nei casi di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76,comma 4-ter sarebbe ultroneo richiedere qualsivoglia attestazione reddituale, va peraltro evidenziato che il provvedimento di rigetto reso dalla Corte di Appello di Catanzaro il 3/6/2020 era incorso in ulteriori errori.

Il primo è che, come si evince agevolmente dalla lettura del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 79, comma 1, lett. a) il richiedente l’ammissione al patrocinio dello Stato è tenuto ad indicare le generalità ed il codice fiscali dei componenti la propria famiglia anagrafica, ma non vi è alcuna norma che gli imponga – come richiestogli nel provvedimento richiamato – la produzione di copia dei documenti di riconoscimento degli stessi.

Nemmeno vi è alcuna norma che gli imponga “l’autocertificazione che l’avvocato risulta iscritto nel registro del gratuito patrocinio”, essendo tale elenco pubblico e la circostanza agevolmente verificabile dal giudice.

In ultimo, anche qualora non si vertesse in una delle ipotesi disciplinate dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 4 ter a nulla servirebbe la richiesta produzione dell’attestazione ISEE, laddove questa Corte di legittimità, infatti, ancora di recente ha precisato che, ai fini della determinazione del limite di reddito per l’ammissione al beneficio, deve tenersi conto anche dei redditi esenti o soggetti a tassazione separata, ovvero percepiti “in nero” o derivanti da attività illecite, senza che assuma rilievo la situazione reddituale calcolata secondo il metodo ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente). (così Sez. 4, n. 46159 del 24/11/2021, Carroccetto, Rv. 282552, che ha ritenuto configurabile il reato di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 95 nel caso di omessa indicazione, ai fini della ammissione al gratuito patrocinio, di redditi non rilevanti per l’ISEE o di imputazione di detrazioni o deduzioni da questo consentite).

P.Q.M.

Annulla l’impugnata ordinanza e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Catanzaro.